Buccellati
Dall’Officina alla Sacrestia. Gabriele d’Annunzio e Mario Buccellati alla ricerca del gioiello perfetto
Testo di Marzio Maria Cimini
Fotografie di Franz Gustincich/Foto&Coperto
C’è da dubitare che Gabriele d’Annunzio, Vate d’Italia, poeta armato, uomo dalla vita inimitabile, abbia davvero avuto così tante donne come i biografi s’affannano a contare e come lui stesso dava prova d’amare: non era uomo da consumare amori frugali, amplessi pei quali non valesse la pena neppure togliersi gli stivali: d’Annunzio le sue donne le amava d’un amore esclusivo, le affogava d’attenzioni, le confondeva con un cerimoniale del corteggiamento che nulla aveva da invidiare a quello d’un cicisbeo alla corte del Re Sole. Per le sue amanti d’Annunzio ammanniva pranzi sontuosi, lui che sdentato non poteva sorbire che brodini e concupire cannelloni, disegnava lingeries sofisticatissime per la notte e mises di gusto squisito per il giorno, componeva versi intrisi della sua migliore arte poetica, solenni e sublimi, di grande effetto presso il pubblico femminile che lo amava senza nemmeno conoscerlo, che lo rincorreva senza requie.
In questo complesso protocollo amoroso non poteva naturalmente mancare il pegno d’amore, nella sua forma più consueta: il gioiello. Il genio di d’Annunzio non si limitava ad acquistare gioielli confezionati coi più preziosi materiali, ma arrivava a disegnare lui stesso gioielli e persino custodie che avrebbero contribuito a dare maggiore lustro al dono.
Dimostrando una non comune conoscenza di pietre dure e tecniche orafe – ma d’Annunzio non era un orecchiante in nulla, acquisendo vaste competenze in tutti gli ambiti dei suoi smisurati interessi – il Vate amava circondarsi di artigiani che combinassero le tradizioni più illustri al gusto più contemporaneo. Non fu un caso se in Mario Buccellati, orafo in Milano, trovò l’interlocutore ideale per le sue invenzioni più ardite.
Incontrato per un felice caso a Milano nell’agosto 1922, il loro rapporto durò almeno quindici anni, fino cioè al 1937, alla vigilia della morte del Principe di Montenevoso, avvenuta a Gardone il 1° marzo 1938.
Dall’Officina, come d’Annunzio aveva ribattezzato lo studio del Vittoriale nel quale lavorava, arrivavano costanti e crescenti ordini alla Sacrestia, come era stato ribattezzato lo studio di lavoro di Mario Buccellati. Il Poeta si dice “tecnico” e dà non rare imbeccate all’orafo: la vigilia di Natale del 1927 gli scrive: “Come tecnico ti consiglio di non adoperare in orificeria il mastice […]. Tu sei un così nobile artista che intendi alla perfezione i miei scrupoli di perfezione”.
Il 4 luglio1926, dopo aver ricevuto poche settimane prima uno sterminato campionario comprendente bracciali con pietre dure, onice e cristallo di rocca, collane in agata e argento, bracciali in oro, un crocefisso in ebano e argento, suggelli, spilloni, una lente in oro cesellata con rubino e turchese, broches e anelli (per un totale di 28 oggetti uno più prezioso dell’altro), d’Annunzio scrive: “Mio carissimo Mario, l’irrefrenabile “donatore” trattiene il pacco, intiero, gustando tutti i gioielli, tranne forse la lente (per la difficoltà di poterla donare opportunamente). Tutte le mie donne hanno occhi di lince, ahimè!”
Cliente difficile ed esigente, d’Annunzio è anche il cliente ideale per un orafo: non ignora il grande lavoro di ricerca, non ignora le tecniche (“Adoperi le scaramazze con un’arte acutissima” gli scrive il 5 dicembre 1926) e saluta con gioia le novità, dando poi precise indicazioni al Mastro Paragon Coppella della sua corte rinascimentale su oggetti da ripetere e da offerire anche fuori dalla cittadella del Vittoriale, con un formidabile senso delle mode e dei gusti degl’Italiani.
Il grande donatore è naturalmente anche grande debitore, e solo con lusinghe dolcissime Mario Buccellati riesce a chiedere le ingenti somme (centinaia di migliaia di lire dell’epoca, pressappoco centinaia di migliaia di euro d’oggi): “All’estrema umidità della stagione fa eco una profonda secchezza delle mie riserve” (14 novembre 1926). Debiti, come risulta dai registri della Sacrestia meneghina, pagati però in larga misura.
Buccellati non poteva trovare più prestigioso e valido testimonial: non compariva sulle riviste patinate indossando le creazioni del committente come i prezzolati attori d’oggi, né sfacciatamente indossava per pubblicità gioielli imprestati come molte dame sui tappeti rossi, penne di pavone in locazione, ma d’Annunzio sapeva di poter contare su un’ammirazione e un’attenzione senza paragone nell’Italia di quegli anni, il suo “stile Vittoriale” (come lo definisce lui stesso) era lo stile in voga, e tutti, dalla borghesia agli aristocratici più difficili, guardavano con desiderio agli oggetti di cui d’Annunzio si circondava, cercando di inseguire il suo vivere inimitabile. Buccellati poteva dunque contare, come pure oggi, su una vastissima clientela molto in vista, oltre che internazionale, tutta raccolta intorno all’idolo d’Annunzio.
Buccellati sapeva poi tentare con garbo e scaltrezza il donatore perpetuo, il forzato dei regali che stava a Cargnacco: gli mandava, insieme agli oggetti ordinati, numerosi altri anelli, spille, broches, fermacarte, collane, portasigarette, indicando per ciascun pezzo il prezzo, e illudendo il Comandante di una massima libertà di scelta: l’orafo ben conosceva la bulimia del Vate per le cose belle, e spesso le lettere di risposta lamentano una impossibilità a resistere, con grave danno per le sue tasche, ma con una noncuranza invidiabile: “Ti mando queste ventimila lire. Ti prego di tenere il conto, che io sono troppo negligente contabile” (17 ottobre 1926).
Leggendo il complesso e lungo carteggio che copre 15 anni di corrispondenza d’amorosi sensi, curato recentemente da Francesca Giraldo ed edito pei tipi del Vittoriale di Giordano Bruno Guerri “Vorrei un gioiello strano”(Silvana editoriale, 2016, pagg. 197, 24 euro) si ha l’impressione che il Principe di Montenevoso spronasse se stesso e il principe degli orafi a trovare un gioiello perfettissimo, squisito nella fattura e pregno dei significati simbolici che tanta importanza hanno “le cose” per d’Annunzio (è pensato da lui e realizzato da Buccellati il celebre amuleto, una tartaruga, che il Vate dona nel 1932 a Tazio Nuvolari: “All’uomo più veloce, l’animale più lento”).
Se ne ha la sensazione esatta, per esempio, in questa mirabile lettera postilla del 26 aprile 1929: “Caro Mario, avevo chiuso la lettera quando mi sono accorto di non averti dato una indicazione simbolica. Voglio – per la spilla – che tu mi faccia un fiore di elleboro nero (helleborus niger). Cerca un trattato di botanica con figure, e cerca poi l’ispirazione. La pianta è venefica (non ho colpa delle due sillabe finali)”. Qui non solo il Poeta si rivolge all’amico con la confidenza grande che sempre contraddistingue il loro rapporto, ricordando al destinatario l’oggetto finale della conquista il cui tramite dovevano essere i gioielli da lui prodotti (“afficato” e “afficatissimo” si definirà a più riprese nelle sue corrispondenze senili dal Vittoriale…), ma s’intende una tensione continua, incontenibile verso la perfezione, una ricerca che non ha requie, alla quale il Comandante si costringe e costringe l’amico.
Sul finire dell’amicizia tra il Poeta e il Mastro, fine determinata pressappoco dalla morte di d’Annunzio, l’intesa è perfetta: “Come sempre, tu superi per novità e squisitezza la mia aspettazione. La scelta delle materie è felicissima. […] Grazie senza fine. Ti accludo umilmente queste cinquemila lire, cosicché il mio grave debito non si accresca. Ti abbraccio” (24 novembre 1935). E ancora: “Caro Mario, siamo pur sempre in comunione mentale. Come hai tu potuto così prontamente e perfettamente interpretare la mia imaginazione?[…] Voglio speditamente trovare una maniera di saldarti il tutto, e di toglier te dal disagio e me dall’onta. Ti mando – come a rarissimi- il libretto che io dono ai combattenti d’oltremare e la medaglia “Teneo te, Africa”. La tua fede e la tua nobiltà ne son degne” (maggio 1936).
Nell’ultima lettera che dall’Officina del Vittoriale giunge alla Sacrestia di Largo Santa Margherita tutto il segreto struggimento di questo cuore appenato e addolcito dalla vecchiezza si svela al lettore d’allora e d’oggi: “Mio carissimo Mario, la grazia della tua amicizia m’è perpetua. Ricevo il tuo augurio, perché tu non sai che –da quando la mia madre si partì [27 gennaio 1917, ndr], e pur sempre presente – il colmo della mia infelicità è nei giorni Natalizi per tutto il mio anno penoso. La variata squisitezza dell’arte tua m’incanta” (23 dicembre 1936).
Certo quel perfetto e irraggiungibile gioiello è rimasto tra le crepe nel fenduto cranio dell’Angelo Cocles, del Nunzio Orbo del Vittoriale. Mario Buccellati ha cercato e cerca ancora oggi, per il tramite della maison che porta il nome di suo figlio Federico Buccellati, guidata dai nipoti del fondatore Lorenzo e Benedetta, di esaudire l’inesauribile desiderio del Comandante, oggi tra i suoi cani nel nulla accolto, rinnovando in un incanto senza tempo la sua straordinaria arte orafa pronta ad ammaliare gli sguardi più rapaci ovunque nel Mondo.
Lorenzo Buccellati: lo stile oggi
Chiacchierata di Cristina Ciusa
Fotografie di Franz Gustincich/Foto&Coperto
Creare uno stile diverso, rivisitando i canoni del Rinascimento Italiano. Così iniziò la notorietà della maison Buccellati, l’oreficeria artigiana. Dall’intuito e dalle gradi qualità imprenditoriali che portarono Mario Buccellati, fondatore del marchio, a essere il primo italiano e fare nel ’56 il salto negli Stati Uniti, quando ancora il concetto di made in Italy era una chimera. Apre a New York. Ancora oggi questa attenzione allo stile continua nella Federico Buccellati. Realtà artigianale familiare che fa storia dell’alta oreficeria del Bel Paese.
Entrare nello showroom di Milano è come immergersi in un’atmosfera ovattata dai colori tenui e armoniosi, dove le lancette dell’orologio sembrano fermarsi. Ammaliati dalla cura con cui ogni oggetto è posto. Come se evocasse con discrezione da quale idea è stato realizzato, cosa interpreta e rappresenta. L’accoglienza ricorda il rito del tè giapponese. Ogni gesto è misurato, raffinato e cordiale. Così, dalle vetrine di Roma (storico negozio aperto da Mario), Shanghai, Tokyo, Pechino, ai partner in giro per il mondo, l’oggetto Federico Buccellati viene scoperto fra le chiacchiere su un tavolino d’epoca che esalta la sua preziosità.
Lo stile in una parola è “personale, esclusivo per il cliente qualsiasi cosa desideri”. Lo racconta Lorenzo Buccellati (figlio di Federico Buccellati e nipote del fondatore), che si presenta come “lo spaventapasseri per il mondo” che incontra nei suoi viaggi di lavoro partner e clienti, ognuno con una storia differente e speciale, con cui si instaura un rapporto di empatia. Non è un caso che il 30% della produzione sia realizzata a discrezione delle variabili e dei gusti propri della clientela. Il famoso “su misura”. E che tanto fece appassionare Gabriele D’Annunzio, che di estro ed estetica visse.
La gioielleria come opera d’arte; contaminata anche dalla quarta generazione con Marta, affiancata dalla zia Benedetta, rispettivamente figlia e sorella di Lorenzo, vede a confronto, come nelle mostre, prodotti che raccontano la storia di un disegno, la sua lavorazione, e la sua finitura con oggetti più moderni perché ideati e realizzati oggi. Tradizione ed eredità si integrano con la contemporaneità conservando gli stilemi Buccellati. “La componente umana della famiglia è importante nella creazione dello stile Federico Buccellati”, commenta Lorenzo Buccellati con gli occhi che gli brillano, descrivendo come ogni fase della lavorazione venga seguita nei dettagli dalla sorella, Benedetta Buccellati, in sinergia con il maestro del cesello, che diventa custode e artista.
L’artigianato non è solo produzione di un oggetto ma è il farlo vivere nella sua contemporaneità come un unicum, sublimando la forma estetica del bello in un’emozione.
Sembra insolito, ma il 90% della produzione è concentrata a Milano. Incuriositi ci si domanda come fa ancora a convivere la cultura artigianale con l’omologazione dei marchi, che ovunque nel mondo presentano le stesse vetrine, con i medesimi concept in un’idea di identità che svilisce il prodotto della sua conoscenza. Quella che ormai il cliente non sa più distinguere. Nella Maison non si realizzano collezioni, non viene considerato il concetto di tendenza. “Ci siamo imbarbariti cedendo conoscenze artigianali all’industria”, continua con rammarico Lorenzo, che prospetta “un ritorno alla qualità artigiana del fatto in Italia”. Come insegnano i corsi e ricorsi della storia. “Il lusso è la distinzione che ogni oggetto ha. È mangiare una matriciana con un guanciale vero!”.
Marta Buccellati, la nuova generazione di orafi.
Fotografie di Franz Gustincich/Foto&Coperto
Marta, figlia di Lorenzo, la più giovane orafa della famiglia, prosegue lo stile Buccellati, con una sua linea più contemporanea, che ha avuto un rapido successo. E’ qui ritratta nel suo studio, nel palazzo di via de’Condotti, a Roma, mentre prepara il modello in cera di una sua creazione.
Indossa il girocollo che ha reso famosa la sua linea.
Nelle foto seguente:
un bracciale d’argento e smalto
Nella foto sotto:
Anello con uccelli, fotografato al dito della stessa Marta Buccellati