Monosilio, le etichette rubate e la piperosofia
MONOSILIO, LE ETICHETTE RUBATE E LA PIPEROSOFIA
di Ciriaco Acampa
fotografie di Franz Gustincich
Pipero è Pipero, come una rosa è una rosa è una rosa. Stazza e razza d’oste di quelli che ne nascono uno ogni mille. Ma l’insegna monumentale che porta il suo nome nel cuore della capitale (per sentimento, prima ancora che per ragioni urbanistiche) non sarebbe quello che è senza lo chef che spadella Carbonara in scioltezza come Trilussa morali a rima baciata. Salvo scoprire che, con la scusa della tradizione, Luciano Monosilio sforna lezioni di contemporaneità urbi et orbi, di quella spinta.
L’incontro avviene sei anni fa, complice Achille Sardiello, direttore di sala con l’occhio lungo che suggerisce il nome del cuoco e si incarica delle presentazioni. Siamo nel 2010, Luciano Monosilio ha 27 anni. Pipero, campione di pragmatismo, commenta: “Ah, ma è di Albano laziale? Perfetto allora, famo casa e bottega”. La sintesi, icastica, ha le sue ragioni. La prossimità dal lavoro per un cuoco è ossigeno, visto quel poco che resta da respirare fuori dalla cucina, salvo stanare – dopo le doti legate al domicilio – un talento stellare.
Monosilio ha studiato all’Artusi di Roma, e dopo la scuola: “A lavorà, come tutti e da sempre in famiglia, pure la gatta”. La svolta vera arriva in via Dei Giubbonari: “I Roscioli m’hanno dato tutto quello che potevano darmi. Conoscenza delle materie prime e opportunità di incontrare tanta gente importante”. Cioè, maestri. “Considerarsi allievo di qualcuno vuol dire trascorrerci tanto tempo insieme, io posso raccontare esperienze brevi ma di certo accanto a grandi mentori”, riflette il giovane cuoco ad alta voce passando in rassegna incontri e lezioni.
Fulvio Pierangelini, il primo: “Silenzioso e geniale, profondo e riflessivo. Ma da lui ho imparato anche che il genio da solo non basta, ci vogliono regole”. Mauro Uliassi: “Altra razza. Estroverso, persona di cuore, generosa. Si lavorava tantissimo, mai più lavorato altrettanto da nessun’altra parte”.
Le lezioni sedimentate da qualche parte, nel profondo, l’esercizio defatigante di ogni giorno ai fornelli, e il talento misto a una curiosità onnivora e globale come il paniere da cui Monosilio attinge per apparecchiare una cucina tutta sua, senza doppi, allegra, bella come certi ricami all’uncinetto eppure lungamente meditata. È la risposta a riflessioni in un certo modo cosmiche, un piatto come l’Agnello, alghe e matcha, un punto di intersezione fra terra e mare, un altro modo di restituire salinità salmastra alla carne sfuggendo all’ossessione modaiola del presalè a tutti costi. Il risultato è croccantezza delle alghe verde brillante intorno all’agnello crudo, altra testura, l’emulsione di alici che amalgama e favorisce la masticazione, il Matcha usato nelle cerimonie giappo, ovvero un trittico di note saline, erbacee e amare.
Ovvero un magnifico boccone di contrappunti e di memoria. Enrico Crippa: “Anche lui, silenzioso, ma grande persona, col silenzio te dice quello che devi fà. Ma quella con lui è stata bella come poche altre esperienze, anche perché ad Alba non c’è davvero niente da fare dopo il servizio e c’hai tanto tempo per studiare, fare ricerca. Non i libri con le figure, quelli so de’ ricette, non servono a niente. Io ho imparato da Crippa cosa sono le erbe aromatiche e poi ho approfondito come e quanto ho potuto. Rubavo le etichette e poi tornavo a casa e studiavo”. Lo chef si ferma, sorride e si mette a cercare qualche cosa sugli scaffali in cucina, afferra una Moleskin sdrucita e dal risvolto di copertina tira fuori una busta firmata “Nicola Pizzi” con dentro dei cartellini “bietole rosse”, “crescione”, “barba di frate”: le etichette, ehm, prese in prestito a Crippa per rubare un po’ di mestiere.
Andarsene in giro per le cucine del mondo, per Monosilio è una passeggiata di salute, sempre. Tipo sgombro, rafano e wasabi. L’idea di base è quella del ceviche, classicone latino-americano riscattato da Gaston Acurio ed elevato a simbolo della nazione peruviana, con intima e pubblica riconoscenza del premio nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa. Nel ceviche di Monosilio lo sgombro ha la pelle scottata, dunque croccante, il pesce rimane crudo come da tradizione, marinato con olio sale e pepe, giocato su note di spiceness: emulsione di wasabi, rafano grattugiato e reso in polvere. Di fianco patata cotta alla cenere, in forno, e scalogno caramellato, bruciato. Spinta avant-garde, contemporaneità logica, senza esibizioni muscolari. E una certezza, divisa col maestro: “Il sapore e l’accoglienza non s’insegnano”, Pipero dixit.