Un millennio di vino
Un millennio di vino
Testo e foto di Franz Gustincich
“Basta seguire il profumo”. Lo scettico chiede ancora, ad un altro passante, le indicazioni per raggiungere le cantine Contucci di Montepulciano. Sarà la brezza che rinfresca questi giorni di vendemmia ma, con il Carducci stampato nella memoria fin dalle scuole medie, “per le vie del borgo/dal ribollir de’ tini/va l’aspro odor dei vini/l’anime a rallegrar”. E l’aspro odor conduce in una cantina che si stende fin sotto la piazza Grande: Contucci.
Portare alle labbra un calice di vino è un gesto semplice e naturale, ed è anche il compimento di un percorso che porta dentro di se mille e mill’anni di storia, di conoscenza, di cultura e di fatica. Ciò vale ancor di più se il vino è il Nobile di Montepulciano, riconosciuto tra i più antichi vini (forse il primo!) prodotti in Italia, e con una storia di fatica e di grande consumo di energia, come racconta Alamanno Contucci, patron delle omonime cantine.
La storia del vino Nobile è saldamente intrecciata con quella della città. Montepulciano si erge tra la val d’Orcia e la Valdichiana, avamposto strategico tra le signorie senesi e fiorentine che se la sono contesa per alcuni secoli. Le scaramucce per la conquista, che trovavano sfogo naturale nelle valli, costringevano i vignaiuoli a cercar riparo in città, insieme al loro prodotto. Iniziarono così a costruire gallerie che dalle vigne giungevano in centro città e la vinificazione, grazie all’ausilio della forza dei buoi, avveniva al riparo delle mura, dove la marmaglia soldatesca, forse grazie al diritto sul bottino di guerra, rapinava uve e vini.
La vendemmia è un’occasione sociale, se eseguita con cesoie ed olio di gomito, anziché meccanicamente come sempre più si usa. I vendemmiatori indossano tutti qualcosa di rosso, ma è solo un capriccio del caso, e aggiungono ai grappoli di Sangiovese – che qui si chiama anche Prugnolo Gentile – che adagiano nei secchi, racconti e chiacchiere in toscano ed in napoletano. Si lamentano della durezza del lavoro, dei soldi che non bastano mai, del tempo inclemente che volge al brutto… però lavorano alacremente pettinando i filari con le dita, che su in città aspettano di riempire i tini. E lo fanno da mille anni, sempre con gli stessi gesti.
Mille anni di vino Nobile son mille vendemmie, tutte pressappoco uguali, ma non noiose, perché fare un buon vino è sempre una scommessa, ed ogni volta si può cantar vittoria solo dopo l’imbottigliamento. L’attesa per il risultato, come per la pagella di un figlio pigro, ci sarà anche per quest’annata, sebbene sia stata decretata come la più proficua dell’ultimo secolo: sia per quantità che per qualità, tanto dagli enologi che dagli avvinazzati nelle osterie.
I piccoli acini che coprono il raspo, son dolci e appiccicosi. Le mani dei vendemmiatori, con la terra aggrappata al glucosio trattenuto sotto le unghie (vale la pena ricordare che in greco antico γλεῦκος significa mosto), profumano d’uva, in contrasto con l’immagine di sporcizia che offrono di loro.
Le cassette rosse son rapidamente impilate sulla forcella del trattore e, da lì, caricate sul camion che – come un tempo i buoi ed i cavalli – le porteranno in città, nelle cantine che si estendono fin sotto la piazza Grande, per la deraspazione e la spremitura.
Contucci è l’ultimo dei produttori che vinifica, come un tempo, al riparo delle scorribande dei soldati, portando l’uva per una salita che si inerpica fin davanti all’ingresso della cantina.
All’interno, con le porte ed una finestra aperta per dissipare l’anidride carbonica che si accumula con la fermentazione, c’è una piccola deraspatrice che pigia ed estrae il mosto. La pompa riempie i tini in cemento di liquido e vinacce.
Il mosto è dolcissimo e già rivela il carattere nobile e generoso del vino che sarà.
Dopo le fatiche della maturazione e lo stress della spremitura, il succo d’uva fermentato deve riposare almeno due anni. Tra le botti in rovere, nell’antichissima cantina, si avverte l’autorevolezza del vino che dorme e, con un po’ di immaginazione, accostando l’orecchio alle doghe, anche i buzzi del russare.
Il vino nel legno di rovere, anche se non russa veramente, non se ne sta cheto: è un continuo cedere e ricevere sostanze e aromi dal legno al nettare e viceversa. E non fidarsi mai delle fascinose botti scurite dal tempo, che han già dato tutto ciò che avevano salvo, forse, qualche muffa poco nobile e molti batteri.
Le botti di Contucci non fan mai più di tre passaggi, e nelle cantine, con il loro legno chiaro, illuminano il percorso ai numerosi turisti, attratti come falene dal profumo e dalla bellezza del luogo.
In queste cantine si sentono parlare 100 lingue, ed i visitatori, annunciati dall’eco dei loro passi dietro ad un corridoio, respirano profondamente gli effluvi del vino e quelli della storia.
Dalla vigna alla bottiglia, qui è tutto intriso di sapore d’antico e di tradizione, a partire dai numeri della produzione, che rivelano la dimensione umana e non industriale dell’azienda. Una media di centomila bottiglie all’anno. Poche, pochissime se confrontate con le grandi produzioni, ma di altissima qualità, e da poco esportate, in parte, anche in altri continenti, dove il nome Contucci rappresenta brillantemente il made in Italy.
Al primo piano, in parte scavato nella roccia, centinaia di grappoli di Malvasia bianca, specificamente di Pulcinculo, così chiamato a causa della macchiolina nera opposta al peduncolo in ogni acino, attendono il loro momento stesi sull’incannucciato. Stratificati come soldati nei letti a castello, appassiscono lentamente, liberando una fragranza dolcissima e appena percettibile. Un vecchio cartello, appena visibile, avverte che ci troviamo nella “vinsantaia”, e decine di piccole botti – antiche e nere, ma ottime per il passito – sono schierate sul fondo della grotta.
Da una ripida scala di legno, costruita in un minuscolo spazio, si accede alle cantine non senza fatica, ma un vano buio, ricavato in una grotta, a metà del percorso, cattura l’attenzione. Una lampadina giallognola, da poche candele, rischiara l’ambiente, e par di sentire il vino più antico protestare per il risveglio non richiesto. Qui son conservate, intoccate negli anni, le bottiglie più pregiate, quelle delle occasioni particolari, tra polvere e ragnatele. 1964, 1965…la sensazione è di trovarsi in un santuario preziosissimo. I movimenti sono naturalmente rallentati, forse per l’ansia di urtare rovinosamente uno scaffale, o anche solo di rimuovere un po’ della coperta di polvere che avvolge l’invecchiamento.
Tra due anni ci saranno anche le bottiglie della vendemmia 2015, la migliore del secolo. Mentre la attendiamo, per scriverne ancora, assaggiamo un bicchiere della Gran Riserva del 2010, per salutare i nostri ospiti, Alamanno e sua figlia Ginevra, che hanno il merito di aver saputo unire la moderna tecnologia con la tradizione enologica del nostro paese